Il vino medievale

Nel Medioevo tutti bevono vino, generalmente annacquato, ovviamente di qualità diverse a seconda della disponibilità economica. La grande rinascita della viticoltura va collocata probabilmente dopo l’anno Mille come risposta all’aumento della domanda che va di pari passo con lo sviluppo del modello di vita urbano.

Il vino servito alle tavole trecentesche di nobili e borghesi non solo era bevanda da consumare ai pasti ma anche una medicina prescritta dai medici per curare varie e numerose malattie. Così almeno pare dalle rigide prescrizioni dei Regimina Sanitatis, manuali medico-dietetici del tempo:

“I vini si distinguono per odore, sapore, limpidezza, colore…il miglior vino genera gli umori migliori. Se sarà nero ti renderà il corpo pigro. Il vino sia chiaro, vecchio, sottile, maturo, temperato, annacquato, vivace, bevuto con moderazione.” 

Da Regimen Sanitatis Salernitanum

Quindi, meglio i vini bianchi, annacquati e non troppo giovani; parola d’ordine, moderazione, evitando di bere a digiuno per non danneggiare la digestione, non bere dopo il bagno o un esercizio fisico e neppure dopo aver mangiato cibi cattivi.

Il medico milanese Maino de’ Maineri, medico presso la corte Viscontea per molti anni nella prima metà del Trecento, riassume così il vino migliore:

“il vino adunque che meglio s’affà circa il reggimento della sanità è quello che è mezo overo uguale tra il vecchio e il nuovo, chiaro tendente a rossezza, di buon’odore e di sapore uguale, non sia acre, né acuto, né dolce… tra il gagliardo e debole, che sia nato in luoghi sassosi e monti, non in terra piana, ma montuosa e secca… che anchor non sia venuto di regione troppo calda né troppo fredda, dove si può conchiudere  che i vini greci né vernacini convengono nel reggimento di sanità né i vini gallicani et lor simili. Ma i vini d’Italia di Vercelliaco o Santo Pulciano…sono convenienti da bere per ragion di sanità…”

Un po’ di sano campanilismo non guasta! Dunque i vini migliori sono quelli italiani a scapito di quelli greci e francesi. La pensava così anche Salimbene de Adam, frate francescano vissuto nel Duecento, autore di una Cronica in cui racconta della propria vita e dei suoi numerosi viaggi. Cambierà idea sul vino francese dopo aver visitato in lungo e in largo la Borgogna. Racconta che quando viveva nel monastero di Cremona, un confratello gli raccontò che nella città di Altisiodoro (Auxerre) c’era una quantità maggiore di vini che in Cremona, Parma, Reggio e Modena. Ovviamente non poteva credere a tanta abbondanza e lo ritenne incredibile. “Ma quando ci abitai mi resi conto che era vero… come vidi con i miei occhi monti e colli pieni di vino.” Quindi alla fine è costretto a ricredersi:

“i vini di (Auxerre) sono bianchi e dorati, profumati, confortanti, di grande e buon sapore e convertono chi beve in gioiosità… (bevendo) non ci si ricorda più dei propri dolori.”

Rimane una preferenza per i vini bianchi considerando i rossi italici migliori di quelli gallici.

La conclusione è affidata ai francesi:

“I gallici, ridendo, sono soliti dire che il buon vino deve avere 3 B e 7 F per essere ottimo e degno di lode. Dicono infatti così:

el vin bons et bels et blance

forte e fer e fin e franble

fredo e fras e formijant

Per la Scuola Salernitana di effe ne bastavano cinque: i vini devono essere fortia, formosa et fragranzia, frigida et frisca. Sono i signa specialia boni vini, le cinque qualità di un buon vino; parafrasando il detto francese, le qualità apprezzate erano le stesse.

Il vino migliore è dunque quello bianco, leggero e fresco; quello rosso è considerato più adatto a palati rozzi, per forti bevitori e sonore ubriacature. Un pasto signorile era accompagnato da “varie sorti” di vini, probabilmente iniziando e finendo con vini dolci, simili ai nostri “passiti”. Questo l’elenco delle bevande di un banchetto raccontato dall’orvietano Simone Prudenzani alla fine del Trecento:

Apresso in questa Corte bevèn vini,

Che se fussor vernacele di Cornilglia

Bastara, tanto a lei se rasomilglia *,

tribbiam marchesgiani o grechi fini,

Eibbona cotta et moscatel(li) marini

De l’isola de Creti o de Ciciglia,

Et a e fiate chiariera vermiglia

Et monterosso et còrsi usamo quini.

Romecha da mattina et malvascia,

A tavola gaglioppa et cortonese,

Cima de gilglio et vin di Romania.

In questa elencazione riconosciamo noti vitigni come la Vernaccia, Malvasia, vini marchigiani, liguri ma anche greci, il famoso “Chiarera” e molti altri a testimonianza di una grande varietà. Pietro de’ Crescenzi, agronomo del Trecento recensisce ben 41 vitigni autoctoni conosciuti durante i suoi viaggi soltanto nell’Italia settentrionale! Quelli più diffusi erano il greco, la malvasia, vernaccia, trebbiano e moscatello.

Uno dei vini più costosi era il Calabrese o del Cilento, rosso, robusto e corposo, citato in apertura di un banchetto quattrocentesco. Segue la Vernaccia (dal nome Vernazza, una delle Cinque Terre liguri) prodotta a Corniglia, un vino bianco e amabile, conosciutissimo e molto apprezzato. Nel Decameron scorre un fiume di Vernaccia ai piedi della montagna di parmigiano nel paese di Bengodi.

Il Corso, citato da Prudenzani, arrivava dalla Corsica sul mercato di smistamento di Pisa. Ne parla il mercante pratese Francesco Datini in una delle sue lettere alla moglie chiedendole se le fosse piaciuto dopo avergliene spedito una certa quantità. Altri vini citati in elenchi di banchetti sono il Latino del Lazio, bianco ed amabile, lo Sclavum del lago di Garda, di nuovo bianco e limpido, il Ribola romagnolo, bianco, sottoposto a cottura per meglio conservarlo, (Prudenzani lo chiama ribbona cotta) anche questo acquistato regolarmente dal Datini, il Pignolo, forse l’antenato del Pinot nero, prodotto nel Lodigiano e nel Piacentino, il Romanesco dalla caratteristica nota frizzante, bianco, prodotto non a Roma ma in Campania, si serviva con le torte e i pastelli; per il pesce ottimi i vini marchigiani, vino de marcha, gialli dorati, limpidi e profumati, spesso sottoposti a bollitura che arrivavano ad invecchiare fino a dieci anni.

La vinificazione medievale derivava direttamente da quella classica. La vendemmia deve essere fatta con cura, l’uva ben ripulita da foglie e rami, senza sciupare i chicchi. Si passa poi alla pigiatura (più pigiature producevano vini meno pregiati) e alla fermentazione che poteva avvenire nella vasca del torchio o in tini di legno di rovere o in orci di terracotta sollevati da terra. Il problema principale rimarrà per secoli la conservazione: il vino andava a male di frequente e rapidamente senza comprenderne le cause. Si escogitavano quindi i rimedi più disparati che non risolvevano il problema ma spesso peggioravano la situazione: si aggiungeva miele o incenso o cenere, oppure si incorporava il vino inacidito alle vinacce del vino nuovo ripassandolo al torchio. Per togliere le impurità in sospensione si aggiungevano albumi d’uovo in combinazione con farina o cenere o sabbia, ovviamente tutte pratiche inutili.

In conclusione non si può non citare l’Ippocrasso o Ypocras, vino speziato che la leggenda vuole tragga il nome da Ippocrate. Forse il termine deriva da un colatoio usato dagli speziali per filtrare gli infusi, utensile che si chiama, appunto, “manica o calza di Ippocrate.” Nasce come vino medicinale, molto costoso perché arricchito di zucchero e spezie, un prodotto di lusso non per tutti. Per questo motivo, non ci sono molte ricette di Ippocrasso nei manuali di cucina tre-quattrocenteschi, ma le si ritrovano per lo più negli “aromatarii”, i manuali ad uso degli speziali. La miscela di zucchero e spezie può essere aggiunta ad un vino rosso sia a caldo che a freddo, lasciando comunque riposare la bevanda per alcuni giorni. Le spezie da aggiungere erano varie e in dosaggi diversi, probabilmente ogni speziale realizzava un miscuglio ad hoc per ogni cliente. Sicuramente dalla categoria medicinale si passò a quella culinaria: ogni banchetto che si rispetti dovrà terminare con un bicchiere di Ippocrasso e spezie confettate, utili alla digestione.