I “pepi”

I “pepi”
Lotta ta Quaresima e Carnevale. P. Bruegel

Un’influenza fondamentale sulle abitudini alimentari dell’Europa medievale fu esercitata senza dubbio dalla Chiesa.

Il dottore della Chiesa Isidoro di Siviglia già nel 500 d. C. lodava il digiuno mentre, al contrario aborriva il consumo della carne, soprattutto quella rossa, perché, mangiando carne, si genera il piacere della carne e così si nutre ogni vizio. Quindi il buon cristiano doveva mangiare pochissima carne per salvaguardare la proprio salute morale.

La dieta dei monaci era quindi basata su pochissima carne, poi pesce, legumi, frutta e verdura, niente spezie, secondo la regola di San Benedetto da Norcia, del 540. Nel Medioevo sono tanti i religiosi che portano all’estremo questa regola cibandosi pochissimo, come San Francesco, o addirittura rifiutando di mangiare come Santa Caterina da Siena che morì di consunzione, letteralmente di fame.

La tomba di Santa Caterina a Siena

Alcuni storici le chiamano le “sante anoressiche”: sono monache che, seguendo la strada dell’estremo sacrificio, fatto di digiuni e penitenze, hanno imposto la loro spiritualità al mondo e sono diventate “sante”.

Questo regime alimentare era d’obbligo per gli ordini monastici, ma anche i laici erano subordinati a regole molto precise.

La Chiesa imponeva loro molti giorni di digiuno, quasi la metà dell’anno, in cui ci si doveva astenere dal mangiare alimenti di origine animale, compresi latte e uova. Si faceva penitenza in Quaresima, Avvento, Pentecoste, tutti i mercoledi, venerdi e sabato, ed altri giorni di festa. In questi periodi “di magro” i signori mangiavano comunque molto, semplicemente sostituendo i prodotti proibiti con altri; quindi pesce al posto della carne, olio al posto del lardo e formaggi fatti con il latte di mandorle cagliato, ovviamente il tutto molto speziato. Si preferivano pietanze di colore bianco, considerato colore penitenziale, ma in piatti che dovevano imitare quelli che non si potevano mangiare. I cuochi si sbizzarrivano in ricette tipo, “Storione che sembra vitello” o “Torte che sapranno di formaggio” e via così. Insomma, per i signori era difficile rinunciare ai piaceri della tavola e i cuochi dovevano ingegnarsi in qualche maniera. Sicuramente c’era il piacere del gioco e della sorpresa che era una caratteristica tipica dei banchetti medievali.

Tra le spezie irrinunciabili anche in Quaresima, c’era di sicuro il pepe, la più diffusa e la più venduta. Ma di “pepi” ce n’è più di uno.

La pianta del pepe, di origine tropicale, produce tre tipi diversi di bacche: il pepe nero o tondo che si raccoglie all’inizio della maturazione quando è ancora rosa; poi viene fatto fermentare ed essiccare.

Il pepe bianco, che nel Medioevo si riteneva fosse il frutto acerbo, viene invece raccolto a piena maturazione, ma poi, messo in ammollo, perde il tegumento e quindi si presenta bianco;

il pepe verde, che è la bacca acerba, ma che era sconosciuto nell’antichità.

L’ultimo da ricordare è il pepe rosa che, in realtà, non è un vero e proprio pepe, ma è il frutto di un’altra pianta originaria del Perù.

Meno conosciuto è il pepe lungo, piccolissime bacche attaccate insieme a formare dei cornetti. Si raccoglie prima della maturazione e si fa essiccare. Ha un delicato profumo che ricorda la vaniglia.

La storia del pepe comincia molto presto, arrivando in Mesopotamia nel 2000 a.C. Da lì grazie ai Persiani e ai Fenici raggiunse il Mediterraneo, quindi la Grecia e poi Roma. Qui risultava essere la spezia più costosa in assoluto tanto da essere considerato una specie di investimento. Nel I sec. d. C. si costruirono dei magazzini appositi e, secondo la leggenda, anche una via consolare, la Via Domiziana, per accelerare il suo trasporto dalla base portuale di Puteoli (Pozzuoili)verso Roma. Ancora più costoso il pepe lungo.

Racconta Marziale di essere stato estremamente felice per il regalo di un cinghiale da parte dell’amico Destro, ma si lamenta della quantità di pepe, di garum e di buon vino Falerno che il cuoco avrebbe dovuto usato. Quindi, forse, a conti fatti, era meglio renderlo!

Tuscae glandis aper populator et ilice multaIam piger, Aetolae fama secunda ferae,Quem meus intravit splendenti cuspide Dexter,Praeda iacet nostris invidiosa focis: Pinguescant madido laeti nidore penates Flagret et exciso festa culina iugo. Sed cocus ingentem piperis consumet acervum. Addet et arcano mixta Falerna garo. Ad dominum redeas, noster te non capit ignis, Conturbator aper: vilius esurio.

Con la caduta dell’impero tutti i traffici subirono una battuta d’arresto, per poi riprendere nell’VIII sec. almeno fino al 1300 quando il prezzo del pepe cominciò a scendere perché era semplicemente passato di moda a favore di prodotti più esotici come le noci moscate o i grani del paradiso.

La ricetta che ho scelto per esaltare il sapore del pepe è la piperata, o peverada, salsa a base di pepe, adatta a carni e pesce. Nei manoscritti medievali ce ne sono mille versioni, perciò ho optato per una semplice, classica (e adatta alla Quaresima) salsa al pepe nero.

Piperata

3 o 4 fette di pancarré bianco, mezzo bicchiere tra aceto e vino bianco, molto pepe nero, una grattata di noce moscata, 1 cucchiaio di olio

Abbrustolire il pane e metterlo in ammollo per una decina di minuti nella miscela di aceto e vino. Poi passare al mixer con gli altri ingredienti. Dovrà presentarsi liscia e molto forte di pepe.

Questa salsa è tipicamente medievale, accompagnamento indispensabile per ogni tipo di arrosto, anche di pesce.