Dacci il nostro pane quotidiano

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“Il pane, oggetto polivalente da cui dipendono la vita, la morte, il sogno, diventa nelle società povere soggetto culturale, il punto e lo strumento culminante, reale e simbolico, della stessa esistenza, impasto polisemico denso di molteplici valenze nel quale la funzione nutritiva si intreccia con quella terapeutica, la suggestione magico-rituale con quella ludico-fantastica.” 

Piero Camporesi, Il pane selvaggio

Il pane è alla base dell’alimentazione di ogni popolazione, ad ogni latitudine, in ogni tempo. E’ un alimento semplice fatto solo di acqua e farina: cambiano i cereali, può essere lievitato oppure azzimo, ma è presente sulle tavole degli uomini da quando l‘homo erectus cominciò a macinare semi con le pietre per ricavarne una farina, che, unita all’acqua, veniva cotta sul fuoco. Lo si mangiava nell’Antico Egitto, nella Grecia di Pericle e a Roma. Nel Medioevo, su grandi fette di pane, venivano servite le pietanze al posto dei piatti individuale. Il frumento era molto costoso e pregiato e quindi riservato alle classi più abbienti, mentre i più poveri si dovevano accontentare di pani più rustici, fatti con cereali meno pregiati come segale, orzo, miglio, avena e sorgo e con una maggiore percentuale di crusca. I più poveri tra i poveri o in momenti di particolare povertà ci si accontentava di una farinata, di una polentina di cereali magari arricchita con erbe spontanee. Era di più semplice preparazione e non necessitava della presenza di un forno. Ricordo che, in un tempo non troppo lontano, le popolazioni della Pianura Padana vivevano di polenta di mais (detto grano turco), arrivato dalle Americhe ma ormai di largo uso; furono salvate dalla fame, ma si diffuse purtroppo la terribile pellagra che portò alla morte moltissimi nelle campagne del nord Italia nel XIX secolo.

Nel trecentesco Liber de Coquina non ci sono ricette per preparare il pane che veniva fatto dal fornaio e non dal cuoco; c’è però una ricetta che a me sembra tanto quella di una specie di piadina; si chiama Torta Defoliata:

De torta defoliata : ad faciendum tortam defoliatam, recipe
farinam distemperatam cum aqua calida et misce lardum minutim incisum,
sale apposito, et pone in tiolla calefacta, aliam tiellam desuper apponendo.

Torta defoliata

500gr farina    80gr strutto (o olio)      acqua e sale q.b.

Impastare molto bene gli ingredienti per ottenere un impasto liscio che si possa stendere. Si lascia riposare per un’oretta coperto. Riprendere la pasta e fare delle palle grosse come uova. Si stendono tonde e sottili e si cuociono in una padella di ferro o antiaderente leggermente unta, già calda. Sono pronte in pochi minuti a fuoco vivace.

L’origine di questa spece di piadina è molto antica; ne parla anche Marco Porcio Catone nel “De Agri Cultura” (scritto intorno al 160 a.C.), chiamandola panis depsticius.

Panem depsticium sic facito. Manus mortariumque bene lavato. Farinam in
mortarium indito, aquae paulatim addito subigitoque pulchre. Ubi bene subegeris,
defingito coquitoque sub testu.

Il pane depsticio si fa così. Mani e mortaio ben lavati. Messa la farina nel mortaio, aggiunta poco a poco acqua e ben mescolata. Quando è ben mescolata si mette e si cuoce sotto il testo.

Nel paragrafo successivo c’è una variante arricchita con uova e formaggio; Catone lo chiama Libum:

75] Libum hoc modo facito. Casei P. II bene disterat in mortario. Ubi bene
distriverit, farinae siligineae libram aut, si voles tenerius esse, selibram
similaginis eodem indito permiscetoque cum caseo bene. Ovum unum addito et una
permisceto bene. Inde panem facito, folia subdito, in foco caldo sub testu
coquito leniter.

Sono panini molto saporiti.La ricetta la trovi qui ed anche qui

In un banchetto medievale non credo si sarebbe servito un piatto così umile, forse più adatto ad un pasto da taverna. Comunque sia sono molto buone e semplici da fare: si possono servire con pezzi di formaggio e prosciutto crudo, di cui parla Catone, ma anche Marco Terenzio Varrone nel “De re rustica” (I secolo a.C.)

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