Arance d’estate

Arance d’estate

Mi sono imbattuta per caso in un articolo scritto dal saggista Enrico Carnevale Schianca; ai più questo nome non dirà molto, ma gli archeogastronomi come me non potranno certo non conoscere. E’ infatti l’autore della “bibbia” sulla cucina medievale, un tomo enciclopedico di 800 pagine che devono consultare tutti quelli che vogliono seriamente provare a fare della rievocazione culinaria approfondita.

Dunque l’articolo in questione è piuttosto lungo, ma fa capire quanto sia complesso ricostruire una ricetta storica, inseguendola nelle varie trascrizioni dei ricettari. Qui si parla di frittelle di formaggio, in realtà molto semplice, con pochi ingredienti, ma che hanno una storia, a mio parere, molto interessante e suggestiva, a partire dal loro nome: Toronges disitivias. Se riuscirete a sopravvivere alla lettura seguirà ricetta, la mia…

“Il gusto per il sorprendente è tipico delle cucine di tutti i tempi, e più particolarmente di quelle dell’antichità: il celebre porcellus troianus rievocato anche nella cena di Trimalcione ne è un esempio da manuale, e così i pasticci medievali stipati di uccelli vivi pronti a prendere il volo alla rottura della crosta. Ma la sorpresa era spesso affidata anche ad espedienti più semplici, se non addirittura puerili, imperniati sulla contraffazione di cibi e bevande. Con una polverina a base di fiori di rosolaccio e di malvarosa, il vino bianco si trasformava ‘miracolosamente’ in vino vermiglio, e una furtiva spolverata di sangue di lepre seccato poteva rendere d’un tratto sanguinolente le carni arrostite già in tavola. La mimesi, generosamente supportata dalla fantasia, non ha mai faticato per trasformare polpette in ‘capponcelli’, frittelle in ‘porcelluzzi’, fili di pasta in ‘capelli d’angelo’, nè ha mancato di esercitarsi anche sui frutti, come dimostrano alcune ricette quattrocentesche che andremo qui di seguito ad esaminare. La prima è contenuta nel manoscritto Western 211 del Wellcome Institute di Londra:

A fare toronges disitivias
Si fanno commo mangarati ma sonno più grosse quasi commo melarance: se impallottano più piccole che arance per che a la padella crescono e mectonsi a cocere cum olio asai per che non tochino lo fondo e cum uno stilo piccolo e aguzo commo gonfiano le pungi e sempre le toccha e falle notare intro lolio: et cocile tanto che siano ben rossi de avantagio: e commo sonno copte le bolle intro lo mele e poi le lieva: mecteci canella et poi le mecti intro uno piatto perché se vogliono mangiare fredde.



Le istruzioni per la cottura sono chiare: queste pallottole grandi come arance (la melarancia è propriamente l’arancia amara, o melàngola) vanno fritte in abbondante olio, punzecchiate e fatte voltolare nel condimento con l’aiuto di un punteruolo, finché acquistino in superficie un colore rossastro; allora si prelevano, si passano nel miele bollente e si lasciano infine raffreddare, aromatizzandole con cannella.
Le istruzioni per la confezione rimandano a certi misteriosi mangarati, che si rivelano ben presto come una cattiva trascrizione del mansanare della ricetta precedente:

A fare ad mansanare
Piglia cascio fresco e ricopta e pistalo molto bene: poi ce mecti uno poco de farina […] poi li da unaltra pistata: mecteci bianchi de ovi et alcune ove cum li rossi e remena omne cosa insieme molto bene in lo mortaro e non ce mectere troppo farina ma solo uno poco per ligare le palette che non si rompano a lo cocere: e che lo remeni bene che venghino bene et bene incollate commo colla: e poi le lassa stare uno poco e poi commo li hai facti cocere cum grascia o olio mescolato: e fai che bolla bene in uno vaso cupo in modo che siano rossi; cavali e mectili intro lo mele e lassa-li comfectare dentro. Poi li mecti dentro uno piatto e di sopra mecti zuchero e canella.

Si tratta dunque di una pasta di formaggio fresco e ricotta, passata nel mortaio con un po’ di farina e legata con uova, con cui si formano ‘palette’ (palette, pallottole) da friggere in una mistura di olio e strutto. Ad mansanare e manganari sono traslitterazioni molto scorrette dell’arabo al-mugiabbana: ma non sarebbe facile accorgersene, senza la mediazione di quella che può sembrare la ricetta modello di queste toronges disitivias, e che si trova nell’edizione castigliana del Libro di cucina di Roberto da Nola, sotto il titolo di toronjas de Xativa que son almojauanas: bisogna prendere formaggio fresco e ricotta e pestarli nel mortaio incorporandovi le uova e la farina; poi si metta al fuoco una padella pulita con un bel po’ di strutto o di olio, e quando bollirà, si divida la pasta di formaggio in tante pallottole grandi come arance, e si calino nella padella in modo che galleggino nel grasso.

Quando saranno tutte raccolte in un piatto, si condiranno con miele, zucchero e cannella.
La corrispondenza con la ricetta del manoscritto Western 211 è evidente, e il termine sinonimo almojauanas si riallaccia ad una specialità della cucina araba del califfato d’Occidente, la mugiabbana rubricata nel ricettario dell’Anonimo Andaluso, il quale raccomanda di preparala non con un solo formaggio, ma con due, uno di vacca e uno di pecora; infatti, se confezionate solo con formaggio di pecora, le pallottole non stanno assieme, mentre se si impiega soltanto formaggio di vacca, questo si addensa, libera il siero e si trasforma in una massa compatta.”

Un’altra versione della ricetta:

“Separatamente si prepara una pasta con latte, farina e lievito e si stende in una sfoglia abbastanza sottile; quando l’olio per friggere bolle, si stacca un ritaglio della sfoglia e vi si avvolge la stessa quantità di impasto di formaggi, chiudendo la mano a pugno, in modo da saldare l’involucro della pallottola attorno al suo ripieno. La mugiabbana così confezionata si frigge nell’olio finché prenda un bel colore dorato, poi si scola e si condisce con zucchero e cannella, o meglio ancora con miele e acqua rosata.
Questa era la ricetta tipica del Maghrib e della Spagna sud-occidentale (Cordova, Siviglia e Jerez). Ma il visir Almohade Ibn Sa’id ben Jami se ne faceva cucinare una versione più sostanziosa, che comportava l’aggiunta di uova sia nella pasta che nella farcia di formaggio, e che si vole-va inventata dal muhtasib (ispettore dei mercati) di Marrakesh, Musa ben al-Hajj Ya’ish.
Il nome mugiabbana viene ricollegato all’arabo giubn (= formaggio).

Bona Sforza da wikipedia

Lo spagnolo almojabana e altre forme similari sono riscontrabili in alcune parlate dell’Italia meridionale, come le almongiavare servite a Napoli il 6 dicembre 1517 al banchetto nuziale di Bona Sforza con Sigismondo I di Polonia, o come le almungiavole di quel ricettario tardo-quattrocentesco attribuito ad un Anonimo Lucano.
Altre almogavanas con pasta e ripieno separati si trovano in un libro di cucina portoghese del tardo ‘400; ed anche qui rinveniamo particolari raccomandazioni per la composizione della farcia.

Sembra quindi di poter concludere che, al di là del suo presentarsi sotto diverse forme, la almojabana prende il nome dal suo ingrediente principale, il formaggio (che del resto è presente in gran parte di tutte le frittelle medievali).”

Ma allora perché differenza di termini? La spiegazione è molto suggestiva:
Taronja è il nome catalano dell’arancia, mentre in spagnolo e in portoghese toronja e torongia designano più precisamente il cedro, o meglio qualche particolare specie di cedro. Il termine, tanto per cambiare, deriva dall’arabo, anche attraverso mediazioni berbere. Il cedro, fra gli agrumi, è stato il primo ad essere conosciuto nei paesi mediterranei, e questo potrebbe avere determinato la diffusione del suo nome anche in senso generico.
Ma la parola tarongia appartiene anche al dialetto siciliano, dove non designa più un frutto, ma una preparazione di cucina…«vivanda di pasta molliccia gonfiata nel friggerla»…detto dai siciliani così per analogia della forma, come arancinu, granatinu, spizzieddu, che sono altre paste.

L’attribuzione del nome di un frutto a questa particolare frittella di formaggio, è il risultato di un processo mentale di cui si può seguire il graduale sviluppo in un’altra preparazione della cucina medievale; si tratta di certe polpette di carne ed altri svariati ingredienti (uova, spezie, frutta secca), confezionate in forma di pallottole, fatte rassodare in acqua bollente e successivamente arrostite allo spiedo. Il cosiddetto Anonimo Toscano le chiama pome, i libri di cucina francesi pommeaulx, e quelli di area anglo-sassone (dove questa specialità aveva ben maggior diffusione) poumes. Il riferimento ideale è il pomum latino, che designa non solo la mela, ma genericamente tutti i frutti tondeggianti… Ma queste poma, durante la cottura allo spiedo, venivano regolarmente sottoposte a quel procedimento noto ai cuochi francesi come doreure: erano cioè spennellate con sostanze idonee a creare una crosta dorata (tuorlo d’uovo, farina, latte di mandorle e zucchero, secondo varie combinazioni), e allora si trasformavano, nell’immaginario dell’uomo medievale, in pomi d’oro.

In quest’ordine di idee, le mele d’oro…si identificano ben presto con gli agrumi, e più precisamente con le arance…
Anche le almojabanas catalane si presentavano come pomi tondeggianti dal bel colore dorato, e non fu difficile scorgervi una chiara, per quanto ingenua, imitazione delle arance, giustificandone così la denominazione taronjas.
E veniamo finalmente a quel misterioso attributo disitivias, che corrisponde… Xàtiva, o Jàtiva o Jàtiba, è una città del circondario di Valencia, antico centro di lavorazione della seta. Intitolarle queste almojabanas dal fantasioso aspetto di arance, vuol dire riconoscere le stesse come note specialità locali: dopo Jerez, Xativa sarebbe dunque stata la seconda capitale delle frittelle al formaggio?
Anche se l’esperienza consiglia di avvicinare con cautela questo genere di attribuzioni geografiche, che si rivelano spesso frutto di pura fantasia, bisogna convenire che, fra le espressioni de Xativa e disitivias, la sola ad avere un significato compiuto è la prima; dovremmo dunque dedurre che disitivias è una cattiva trascrizione di de Xativa?

Una soluzione si affaccia inaspettatamente dal medesimo manoscritto Western 211, che nelle ultime pagine reca la seguente ricetta:


Per fare arancia per el tempo de lastate.
Piglia cascio fressco et cascio de guaino, zucaro libra una et uno bichiere de acqua rosata; et pista dicto cascio in uno mortaro cum dicta acqua e zucaro et friggi dicte cose in olio.


Non ci vuole molto ad accorgersi che si tratta sempre della ricetta delle taronjas o almojabanas che dir si vogliano, in una versione estremamente sintetica; ma il titolo, questa volta, è in puro italiano, e la precisazione ‘per el tempo de lastate’ diventa icasticamente chiara se si pone mente al fatto che l’arancia è un frutto invernale, e d’estate non si può fare altro che ricrearla con un’ingenua finzione, ravvisandola in una frittella tondeggiante e resa dorata dalla rosolatura. Ma la conclusione stupefacente è che l’espressione ‘arancia d’estate’, in catalano suona taranja da estìu, ben suscettibile di essere storpiato in toronges disitivias.

Proporrei dunque la seguente ricostruzione dei fatti: da una medesima fonte, a noi ignota, un compilatore che conosceva il catalano ha estratto la ricetta di queste arance estive contraffatte, traducendo il titolo con esattezza, mentre un altro copista, forse sotto dettatura, lo ha malamente traslitterato… il compilatore del manoscritto Western, probabilmente (non si è accorto) di avere copiato due versioni della medesima ricetta.

Toronce o Arance d’estate

400 gr. di ricotta di pecora, 150 gr. di farina, 150 gr. di zucchero, 2 uova, miele q.b., acqua di rose o cannella in polvere


In un recipiente versate la ricotta e lavoratela a crema con lo zucchero, aggiungete le uova uno alla volta e infine la farina un po’ alla volta, fino ad ottenere un impasto morbido, ma non troppo molle. Con l’aiuto di due cucchiai formare delle palline che dovranno friggere in abbondante olio. Quando sono ben dorate, scolarle, ricoprirle di miele e spruzzare leggermente di acqua di rose o di cannella. Mangiare calde.

Io ho utilizzato un olio di semi di arachidi perchè ritengo che il sapore dell’olio di oliva sia troppo intenso per queste frittelle così delicate. Anche per il miele opterei per un millefiori o un miele fluido di acacia.